La strada per l’Inferno è (spesso) lastricata di buone intenzioni

Avatar Christian Soriano

Avete presente quell’andante nietzschano, presente nello Zarathustra, che recita

Volete anche essere pagati, virtuosi! Volete avere un compenso per la virtù e il cielo per la terra e l’eterno per il vostro oggi?

Che sta nel capitolo intitolato, giustamente, Dei virtuosi, nei quali questi vengono per lo più vilipesi e, spregiudicatamente, detronizzati da quella posizione di merito che si sono faticosamente guadagnati; il senso è che, di fronte all’irresistibile tentazione di farsi <<tutti buoni>>, la strada che invece conduce ad una certa soglia di ‘autenticità‘ non è facile e, per lo più, è anche difficilmente percorsa.

Anche perché il senso comune, come ci suggerisce la voce principale della società, vuole che di fronte all’impellenza del momento uno trovi sempre e comunque la strada più battuta e quella che reca meno fastidi a tutti.

E quindi, secondo la società, dobbiamo farci, in parole povere, tutti virtuosi… ma di quale virtù, in ultima istanza, qui si parla? Certo non di quelle classiche, dal momento che <<società che trovi virtù da scoprire>> e via discorrendo… perché col mutare delle condizioni socio-culturali-economiche cambiano anche i criteri affinché una virtù possa esercitarsi e affinché essa sia definita tale; secondo il filosofo Byung – Chul Han, il senso di questo misfatto sta in quella che egli definisce la principale virtù della società contemporanea e che poco ha a che fare con i canoni stessi della virtù: essa possiamo definirla una certa ‘stanchezza‘ nella misura in cui il farsi stanchi prelude a un disinteressamento virtuoso verso le condizioni di tutti e, ultimo ma non meno importante, quelle della riproduzione della società stessa; a questo punto, immaginarsi un’impellenza diversa riduce drasticamente le chances per le quali una cosiddetta virtù giusta possa manifestarsi: e a buon ragione!


La questione è quasi sicuramente che la stanchezza, più che essere una virtù, è uno stato d’animo e/o fisico; essa manca di reattività, ed è questa la condizione che la rende, appunto, una virtù: in un contesto nel quale, infatti, la reattività è il mantra da seguire, in ogni caso e in ogni dove, praticare, invece, l’astensione dall’azione non può che essere foriero di benessere e di una certa presenza a sé: tutte condizioni che rendono la virtù quasi sempre desiderabile rispetto al non averla.

Cosa ne penserebbe Nietzsche di tutto questo? O, meglio, Zarathustra che parla per bocca di Nietzsche?

Non possiamo saperlo e ciò perché sono drasticamente mutate anche le critiche che possono opporsi a una situazione di fatto: non siamo più sul finire dell’Ottocento, dove una certa decadenza era da preferire alla serietà del dovere, onde stemperare gli animi irretiti in un discorso qualunquista e simil-virtuoso… oggi, pare che il misto di decadenza e di performatività sia divenuto il criterio oggettivo per poter fare bene – e del bene; la stanchezza, quindi, si collocherebbe a margine di questo discorso e per il tramite di ciò che definiremmo <<un qualunquismo alla rovescia>>, nella misura in cui può produrre significanza e disperazione là dove, invece, la speranza produttiva la fa da padrone: praticare un certo laissez faire – non da intendersi in senso economico ma proprio esistenziale – può essere la soluzione per arrivare a dirci che, a scapito di qualunque discorso inutile, il percorso per giungere a qualcosa è spesso tortuoso e passa per infinite deviazioni.

Tutta roba che stanca e, speriamo, che in questa stanchezza ci sia anche la cifra, nietzschana, di una critica alla “finta” virtù del qualunquismo…


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